“Buongiorno Marta, come sta?” oppure “Benvenuto Paolo, come è stata la sua settimana?” oppure ancora “Piacere di conoscerla Guido, in che modo posso esserle utile?”.
Queste sono solo alcune delle domande che tipicamente caratterizzano l’inizio di una seduta dallo psicologo. Possono essercene tante altre o possono non essercene, perché il colloquio può anche iniziare parlando dell’ultima partita della Roma come anche del nuovo film di Clint Eastwood, fino al verificarsi della condizione più temuta appartenente all’immaginario comune, dai terapeuti più giovani come dai pazienti stessi: il silenzio; assordante quasi, nel quale si danno battaglia gli infiniti significati attribuiti, dall’una e dall’altra parte, a quel silenzio. “Forse mi trova troppo giovane e pensa non sia competente”, “oddio mi fissa come se mi interrogasse, ma io non so di cosa parlare”, “perché mi guarda come se fossi uno scemo?”.
La verità, a dispetto di quello che la cultura popolare, soprattutto di taglio cinematografico, prova a raccontare, è che non esiste un copione di come si svolga una seduta dallo psicologo, semplicemente perché è altrettanto inesistente la figura dello psicologo inquisitore, che riserva uno sguardo vitreo allo spaesato paziente generando la ricerca di una teoria interna che lo aiuti a superare la seduta.
Il colloquio dallo psicologo, o la seduta come più comunemente tendiamo a chiamarla tutti, è una conversazione come altre 1000 ne intratteniamo durante le nostre giornate, con una differenza fondamentale: lo psicologo è lì per noi, in quell’ora nulla è più importante di ciò che sentiamo di voler comunicare, con le parole oppure con il silenzio.
Non ci sono telefoni che distraggono, non ci sono “scusa un attimo, adesso mi finisci di raccontare”, c’è un ascolto onesto e sincero per noi; e ci sono domande. Si, perché lo psicologo non ha lo scopo di darci risposte precotte e preconfezionate, trovate nell’intimità della propria mente, ma vuole cercarle con noi, attraverso domande che lo aiutino, e aiutino quindi anche noi per riflesso, a capire la vera natura delle nostre difficoltà, qualunque esse siano.
Quello che accade durante una seduta dallo psicologo è stato spesso paragonato ad una danza, durante la quale entrambi i “ballerini” coordinano le proprie menti, e si prefissano uno scopo, oppure tanti piccoli scopi, chi può saperlo; psicologo e “paziente” lavorano sempre l’uno con il consenso dell’altro, e scelgono liberamente dove hanno desiderio (oppure la forza) di andare, e dove no. Non sono dominati dalla ricerca del risultato o del cambiamento, perché condividono presto come non esista un “presto” o “tardi”, perché ciascuno è semplicemente nel suo tempo, e imparano presto ad apprezzarlo e rispettarlo.
Il passo più difficile rispetto l’inizio di una terapia o di una serie di colloqui, tuttavia, è la chiamata allo psicologo o al terapeuta; perché ancora prima di conoscerlo o conoscerla, il terapeuta già prende forma nella nostra mente, spesso come figura giudicante, richiedente e in possesso di micidiali abilità di analisi ed osservazione grazie alle quali ci scopre nei pensieri più intimi grazie anche ad un semplice gesto o un colpo di tosse.
Per contro, il paziente prende forma nella mente del terapeuta già dal primo contatto telefonico, e accende sentimenti di curiosità ed interesse, consapevole di avere l’occasione di conoscere una nuova, ennesima persona, certamente unica nel suo genere, come tutti noi.
Come ridurre allora lo spazio tra le due rappresentazioni mentali, del paziente e dello psicologo? Comprendendo come non esista uno “svolgimento tipico” di una seduta, così come non esiste una trama per un pomeriggio di svago. Ci sono le intenzioni, i desideri e, perché no, le paure, ma la vera essenza starà sempre nel concedersi la possibilità di viverlo.