È una delle fatidiche domande a cui, molto probabilmente nel corso di ogni primo colloquio, ogni psicologo
risponde. Rappresenta allo stesso modo, uno dei quesiti che guidano la scelta e orientano la decisione nella
fase, spesso combattuta e non priva di incertezze, che precede la prima chiamata ad un terapeuta.
Può assumere varie forme ma suona più o meno cosi :” Quante sedute ci vorranno per risolvere?” O nella sua versione impersonale:” Quanto tempo dura una terapia?”.
Non è raro trovare, davanti a siffatta domanda, dubbio ed incertezza, tanto nel clinico quanto nel paziente. Lo psicologo, pressato ed incalzato su questo punto, può, in alcuni casi, commettere l’errore fatale di rispondere in termini assoluti ad una domanda che di per sé non prevede una risposta univoca.
Tre mesi, quattro sedute, un anno: risposte parziali a domande incomplete. Come chiedere la durata di un viaggio del quale non conosco la destinazione. Chiariamo un punto: così come il paziente ha tutto il diritto di porsi il quesito,
mosso dall’esigenza di ottimizzare tempo e star meglio il prima possibile, così lo psicologo ha il dovere di ridefinire tale richiesta attraverso un passaggio fondamentale.
Concordare con il diretto interessato quello che rappresenterà l’obiettivo condiviso della terapia è l’unica cosa che consenta realmente di poter portare avanti un percorso terapeutico di cura reale. Questa tappa, oltre che porsi come primo reale passaggio terapeutico, fornisce la miglior risposta alla domanda iniziale.
Tutto questo non è assolutamente un modo di eludere una più che legittima domanda.
Facciamo un esempio, dei più frequenti negli studi di terapia. Attacchi di panico ricorrenti, paura di morire ed avere un infarto, sensazioni di soffocamento. Di solito nel giro di pochi mesi, attraverso colloqui mirati, si giunge ad una
riduzione significativa della sintomatologia, con conseguente miglioramento della qualità di vita del paziente.
Dopo qualche colloquio emerge come gli attacchi di panico vengano preceduti da pensieri e stati di solitudine o inadeguatezza , magari dopo la fine di una relazione o un insuccesso lavorativo. L’attacco di panico può qui divenire spia e sintomo di un problema legato al modo di gestire la distanza dall’altro amato, così come la forma che assume l’esperienza di un rifiuto che suscita inadeguatezza e senso di incapacità. In una modalità che può costituire per il
paziente un funzionamento ricorrente, uno schema rigido che ne mina il benessere psicofisico.
Qui, lo psicologo ha l’occasione di fornire la migliore delle risposte al quesito iniziale: “ Caro Marco, la durata della terapia ed il numero delle sedute necessarie dipende dal tipo di lavoro che decideremo di fare e che lei è motivato a perseguire. Ha visto come l’esperienza del panico, per quanto spiacevole, sia collegata a dei temi ricorrenti che la espongono ad elevati livelli di sofferenza e che le appartengono da tanto. Sento che potrebbe essere molto importante per lei arrivare a gestire la sofferenza che le deriva dai suoi schemi. Non si senta tuttavia obbligato ad intraprendere un lavoro di questo tipo, se quello che sente prioritario è concentrarci sugli attacchi e cercare di superarli in alcune situazioni specifiche. Stabiliremo il tempo necessario in base agli obiettivi che ha e che l’hanno spinta a venire”.
Con la mappa in bella vista e la destinazione chiara nella mente, la durata del viaggio emerge quindi come risultato di un “alleanza di lavoro” che costituisce il primo, ineludibile e fondamentale passo di ogni percorso di cura e guarigione.